lunedì 30 luglio 2012


d. bellomi : finzione atriale - carica a duecento, libera


atriale: la soglia costituita che rimane separata. andare via dalla terra. si riferisce a uno spazio o una camera. è un vestibolo che allaccia zone lontane, dispari nei corpi, caverne. è una finzione, ma decidono per la prima carica. per dire del cervello, e della stanza di raccolta del sangue. nel cuore esiste una regione laterale. vi si entra da un portale e si è nel cuore del sangue. applicano il gel. prima bisogna stare sulla soglia di una fibrillazione. per sempre separati da ciò che si era. non si riferisce più di spazi, o camere, di collegamenti ad aree remote, di corpi che si fanno dispari. impostano il timer. è una finzione. stanno nei corridoi. prima carica a duecento. vale a dire quanto vale per il cervello, e la raccolta locale, sangue, cuore, mano: il portale è lì, si entra, dopo la sala, ed è nel sangue del cuore. rimangono in contrasto, nel ventricolo in cui si perde il corpo. la parete è rimasta violentemente sottile. partenza dalla terra. per i pesci è diventato semplice, tutto va dall’atrio, si ferma nel ventricolo, abita le camere cardiache, arredate. nessuno ha mai pensato di curarli. i vertebrati si animano, restano anatomici, abitano locali a tre o quattro stanze, atrii circolari del sangue che completano un ciclo, ne iniziano uno nuovo. nel contrasto del ventricolo il corpo perde. non funziona. la parete resta inarrivabile, permette il sangue al cuore. ci sono almeno due sostanze, due parti che non si spostano. carica di nuovo. è una finzione. libera.

domenica 22 luglio 2012


norte, deus (2012)


potranno forse avercela coi vinti, recriminare, rinchiusi 

a liberarsi da una scelta fatta a braccia stese, wide opened,
 
conserte nel disarmo, i quarti in mostra. vi narcotizzano 

coi taser, in morte della disciplina proveranno a farvi oggetti, 

atti dell'offendere, auguri per schiarite delle idee coi ferri

di un mestiere accidentale; biossido, cyanide, parate

che rendono incosciente l'abitudine a disperdere. entrano 

sotto, abort, ripiegano soltanto se ordinati, si danno aiuto 

con gli assetti, provano violenza condannando e poi recidono 

le cornee fino al bulbo, halaal, quando decidono per legge

non troveranno più chi sia clemente, non a mezzene

schierate dietro al banco, sanno e generano il fuoco, cauterize,

sono nel marchio apposto se questo è quello che potranno

contenere. adesso picchiano, pleurer, è come pioggia

domenica 8 luglio 2012


overrule (2012)


e non ditemi altro, non ditemi poesia, non parlatemi di lingua, vorrei farmi capire che la mia lingua è, ma langue est, che la mia lingua è poesia e non questa illusione frattale, parafascista, liminare, che brucia la struttura dell'osceno per pulirsi, eliminando di colpo il discorso sul mondo, l'eternità e il fiato, di creta, poi fango, muta nella propria forma, sentore che si allarga, si allaga a lato delle superfici, dei modelli da far cuocere e bruciare, rivoltata nella forma della propria vessazione, mentre tira dietro il caldo, pensata senza limiti, bestiale, mai pura, attaccata al centro di tutto, di tutti, oscillando, nel farmaco che la rovina, che continuerà a rovinarla, il fiume acido dello stomaco che tratta di anomalie ristabilite, annullate, rese impotenti.

non ditemi lingua, non ditemi lingua sociale, non parlatemi del punto in cui il testo inizia a perdere i colpi, perché è lì che si ferma il vostro uso della lingua, è lì che cerca di ripararsi vedendo quanto sia impossibile giocare sulle proprie fissazioni, ogni tanto puoi vedere qualcosa attraversandola, puoi provare a parlarle piano, anche se poi rimarrà solo una possibilità di urlare, dirle di andare via, tenere gli occhi chiusi mentre scorre qualcosa negli inserti delle palpebre, fluttua il bianco, il resto dei colori, anche se non sarà mai abbastanza, non sarà l'impegno sociale a rendere autosufficiente la vostra lingua, non vi sarà mai dato di parlare e poi farvi applaudire, per fortuna, ma solo riaprendo e chiudendo quello che vi rimane, le vostre quattro idee sul mondo, sui modi di sospendere l'autocoscienza, di tenervi in sospensione, a galla rispetto agli altri, esattamente come la merda. 

non ditemi altro, non ditemi poesia, non parlatemi di lingua finché non avrete almeno intuito i tasti da toccare, gli scrupoli giusti, abbandonati, quello che potrebbe offendere e che però non interessa mai, la forma del vuoto inscritto fra le righe, modo di tenere il buio, qualcosa che potrebbe non esistere, quello che non si capisce, che non guarda oltre la linea dei propri piedi, siamo dove tutto è fuori, dove tutto esiste proprio perché esposto, all'esterno, il mondo dentro non esiste, lo scambio di idee spesso non aiuta, non si torna ai bei tempi, non ci sono bei tempi, non ci sono miti politici da tirare in mezzo che si rivelino immuni dalla nascita, niente cultura hippie, niente folle sorrette, unica speranza negli assembramenti, niente anni associati a un qualsiasi metallo, che sia oro o piombo, niente gente che si ammazza in strada, niente sangue senza canali di scolo.

no, e non ditemi lingua, non parlatemi di vocalizzazioni, di lirica, non parlate più, ditemi dell'altro, ditemi che non siete in grado di farlo, lo preferisco ed è meglio anche per voi, non ditemi di fasi di sviluppo muri da scardinare porte da svellere, non ditemi che se vi entrano in casa li tramortite, lo faccio io al posto loro, non ditemi di armi di autodifesa, non appellatevi ai sentimenti, ve li faccio provare a tutti su per lo stomaco come quando entrano in casa e ti narcotizzano, quando usano il trapano per scardinare il serramento, e poi aprono dall'esterno, fugano ogni dubbio sull'esistenza degli orari e degli ori di famiglia, magari tramortiscono, ogni tanto va bene e il piede di porco non sopravanza il rischio della risalita, tanto che appare soltanto la porta finestra divelta, i beni rimanenti intatti, sulla scrivania di fronte, a qualche metro dal traguardo. non parlatemi di drammi se non ne conoscete, non presumete drammi universali che non ci sono, non mettetevi in piazza, non andateci nemmeno, pensate a coprirvi.

non ditemi lingua, non ditemi quella parola, cancella quella parola, non è sfogo ma soltanto lo sfregio dell'esistere, quando senti il rumore in lontananza e sai che puoi anche smetterla di ascoltare, che non avrebbe alcuna importanza, che non si muove, non succede niente, che si tratta di un'anomalia, disabilitazione di ciò che è vero, che non si destina alla gabbia ciò che si conosce, la malattia che ti sussurra sì, vieni, non c'è nulla di invitante, vedendo attraverso il vetro disposto in sezioni, chiedendosi cosa vuol dire essere questo io, temendo quello che potrebbe voler dire questo io, non siamo al nostro turno, non siamo nel mezzo di una scena in cui prima o poi l'ingranaggio si fermerà, non si può rettificare nulla, non c'è modo di disporsi in prima fila rispetto al mondo, non c'è modo di allinearsi alla pianura, l'universo non muore, non si lascia divorare, un po' però disgusta, rimane lungo la stessa retta intrapresa dai passi, non c'è rasoio che divida, che carichi su di sé il movimento inverso, il fatto stesso di resistere.

no, e no, la lingua rimane da parte, rimane come una forma di violenza che a molti non è dato di capire, l'unica violenza sul reale che sarebbe meglio continuare a tollerare.



mercoledì 4 luglio 2012

domenica 1 luglio 2012


uscita dalla breccia (2012)


trovo che la prospettiva spesso possa risultare errata e netta
retta da qualcosa che inizia adesso e poi si farà pulito e a posto
nel tramite di luoghi conosciuti o frequentati con insistenza
quando nulla potrà darsi nella sua totalità o per misure in nodi
di vento o fatti e poi scorsoi dentro ai filtri o nelle depressioni
proprie di terreni diversi e scanditi dagli accadimenti esposti
in varchi e rotture che sono troppe in vortici consequenziali
estinti e mai voluti nel risveglio estorto e mai ritornato volti
a ciò che non potrà riuscire il dire che non sarà mai se stesso
ripartito e che ora preme riprova ad essere chiamato nel nuovo
percepirsi nell'evento come parola prima che chiama e preme
quando prende forma nel gesto di aprire il braccio e distrarsi
indicando un punto fermo come cosa o stazione via della croce
deserta e disattesa o disserrarlo poco prima correggendo il verso
della mano il tiro errato puntando verso sirio o dritto alla bocca
per non dire nulla delle possibilità ritese e ora più avventate
e poi sventate a stento nelle cose conosciute prima della stessa
forma o evitate e poi presenti esatte trasparenze o trasversali
nel ridicolo che tenta e si ripensa in salti e prova a darsi pace
a trovare riposo negli stessi gesti avvenuti al centro della caduta
sasso che parla al fiume del proprio riflesso dentro al fiume
che il riflesso vorrebbe immaginarselo e rimane vivo entrando
e uscendo dalla propria breccia fatta di gocce e grandezze pronte
e preparate o poste a ricordarsi di un corpo che è primo e solo
a scrivere il banale per com'è teso e tentato a sfogliare se stesso
gravitando attorno a frenesie di proiezione o eventi disegnati
avvenuti solo per passaggi spirituali e poi travolti e mai successi
anche se poi ripresi e riportati dentro soglie e solchi differenti
per far parte di una costellazione posta oltre lo stesso sguardo
di cosa muta e vinta o vista e che si avvede di quello che potrà
accadere non potendo immaginarsi e poi soltanto provando
ad ascoltare provvedendo a tutto quanto sia passibile di accenti
possibile nell'estensione delle gambe nelle palpebre difficili
da chiudere senza riuscire a respirare perché è questa la storia
che si accetta e che è diretta esposta oltre la soglia tentata
dagli occhi che ti cercano e che stanno ovunque e sono nuovi
perché muovono pretesti e impongono una giusta precedenza
recuperando altri tempi e forme spogliati nell'ipotesi peggiore
del risveglio che non si chiede nel solo fatto di svegliarsi
o di darsi la svegliata attesa nello spazio di ore o settimane
da cui è impossibile tirarsi indietro non credendo al nuovo
assurdo dei passaggi conclusi e ripensati e che si esca da se
stessi trovando la propria forma di vuoto nel vuoto della mano
fatta braccio e poi breccia ad indicarti serrato un nuovo ordine
ripartizione di un dolore composto e scoordinato guardato
prima da poco più in alto poi rivelato come corrispondenza
vera da credere e da sopportare riuscendo a farlo entrare