passare e chiudere scordandosi gli acronimi, nel “domani che viene”:
per quanto fatto, e più a lungo, a radicarsi nelle parallele o nei riverberi.
è quanto importa solo nel disegno e nel periodo che si blocca, rimanda
altrove a più mandate anche dell’altro a fare voci, e non è vigile a se
stesso, e non capita mai più. resta una definizione, e proprio lì continua
a dirti “che non è difficile”, delle pareti chiuse e compiute, a consolare
ciò che è equivalente, o meglio, continua a dirti che “è l’equivalente”,
e “se non è così difficile” decide che vedere il “dove” e “il niente” è
più del niente e importa ovunque, ed è la stessa vigilanza, e i luoghi
attesi potranno separare il massimo dal peggio, e intanto non accade
nessun posto, niente stati di veglia, niente vedere quanto è divenuto
altro dal centro, e dal basso: lo sguardo è finalmente arreso, puntato
ad alzo zero, in proiezione cieca. dirigere la procedura adesso implica
la coltre e la corsa, la progressione degli alberi, disciplinata fuori, posta
a quell’abisso del minuto dopo: è la resa del giorno, la facoltà di non
doverne più rispondere, e accade niente nelle impronte, nel giorno
dopo quello dell’abiura, niente misure necessarie, e sì, “dell’altro è fine";
estremità da stare in piedi, venute appena a conoscenza del mondo.