e non ditemi altro, non ditemi poesia, non parlatemi di lingua, vorrei farmi capire che la mia lingua è, ma langue est, che la mia lingua è poesia e non questa illusione frattale, parafascista, liminare, che brucia la struttura dell'osceno per pulirsi, eliminando di colpo il discorso sul mondo, l'eternità e il fiato, di creta, poi fango, muta nella propria forma, sentore che si allarga, si allaga a lato delle superfici, dei modelli da far cuocere e bruciare, rivoltata nella forma della propria vessazione, mentre tira dietro il caldo, pensata senza limiti, bestiale, mai pura, attaccata al centro di tutto, di tutti, oscillando, nel farmaco che la rovina, che continuerà a rovinarla, il fiume acido dello stomaco che tratta di anomalie ristabilite, annullate, rese impotenti.
non ditemi lingua, non ditemi lingua sociale, non parlatemi del punto in cui il testo inizia a
perdere i colpi, perché è lì che si ferma il vostro uso della lingua, è lì che cerca di ripararsi vedendo quanto sia impossibile giocare sulle proprie fissazioni, ogni tanto puoi vedere qualcosa attraversandola, puoi provare a parlarle piano, anche se poi rimarrà solo una possibilità di urlare, dirle di andare via, tenere gli occhi chiusi mentre scorre qualcosa negli inserti delle palpebre, fluttua il bianco, il resto dei
colori, anche se non sarà mai abbastanza, non sarà l'impegno sociale a rendere autosufficiente la vostra lingua, non vi sarà mai dato di parlare e poi farvi applaudire, per fortuna, ma solo riaprendo e
chiudendo quello che vi rimane, le vostre quattro idee sul mondo, sui modi di sospendere l'autocoscienza, di tenervi in
sospensione, a galla rispetto agli altri, esattamente come la merda.
non ditemi altro, non ditemi poesia, non parlatemi di lingua finché non avrete almeno intuito i tasti da toccare, gli scrupoli giusti, abbandonati, quello che potrebbe offendere e che però non interessa mai, la forma del vuoto inscritto fra le righe, modo di tenere il buio, qualcosa che potrebbe non esistere, quello che non si
capisce, che non guarda oltre la linea dei propri piedi, siamo dove tutto è
fuori, dove tutto esiste proprio perché esposto, all'esterno, il mondo dentro non esiste, lo scambio di idee spesso non aiuta, non si torna ai bei tempi, non ci sono bei tempi, non ci sono miti politici da tirare in mezzo che si rivelino immuni dalla nascita, niente cultura hippie, niente folle sorrette, unica speranza negli assembramenti, niente anni associati a un qualsiasi metallo, che sia oro o piombo, niente gente che si ammazza in strada, niente sangue senza canali di scolo.
no, e non ditemi lingua, non parlatemi di vocalizzazioni, di lirica, non parlate più, ditemi dell'altro, ditemi che non siete in grado di farlo, lo preferisco ed è meglio anche per voi, non ditemi di fasi di sviluppo muri da scardinare porte
da svellere, non ditemi che se vi entrano in casa li tramortite, lo faccio io al posto loro, non ditemi di armi di autodifesa, non appellatevi ai sentimenti, ve li faccio provare a tutti su
per lo stomaco come quando entrano in casa e ti narcotizzano, quando
usano il trapano per scardinare il serramento, e poi aprono
dall'esterno, fugano ogni dubbio sull'esistenza degli orari e degli ori di famiglia,
magari tramortiscono, ogni tanto va bene e il piede di porco non
sopravanza il rischio della risalita, tanto che appare soltanto la porta
finestra divelta, i beni rimanenti intatti, sulla scrivania di fronte, a
qualche metro dal traguardo. non parlatemi di drammi se non ne conoscete, non presumete drammi universali che non ci sono, non mettetevi in piazza, non andateci nemmeno, pensate a coprirvi.
non ditemi lingua, non ditemi quella parola,
cancella quella parola, non è sfogo ma soltanto lo sfregio
dell'esistere, quando senti il rumore in lontananza e sai che puoi anche
smetterla di ascoltare, che non avrebbe alcuna importanza, che non si muove, non
succede niente, che si tratta di un'anomalia, disabilitazione di
ciò che è vero, che non si destina alla gabbia ciò che si conosce, la
malattia che ti sussurra sì, vieni, non c'è nulla di invitante, vedendo
attraverso il vetro disposto in sezioni, chiedendosi cosa vuol dire essere
questo io, temendo quello che potrebbe voler dire questo io, non siamo al nostro turno, non siamo nel mezzo di una scena in cui prima o poi
l'ingranaggio si fermerà, non si può rettificare nulla, non c'è modo di
disporsi in prima fila rispetto al mondo, non c'è modo di allinearsi alla pianura, l'universo non muore, non si lascia divorare, un po' però disgusta, rimane lungo la stessa retta intrapresa dai passi, non c'è
rasoio che divida, che carichi su di sé il movimento inverso, il fatto stesso di resistere.
no, e no, la lingua rimane da parte, rimane come una forma di violenza che a molti non è dato di capire, l'unica violenza sul reale che sarebbe meglio continuare a tollerare.
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