le serate peggiori iniziano quando ci si accorge di non poter entrare da nessuna parte senza aver prenotato un tavolo, senza che qualcuno dica che no, qui è tutto troppo affollato, e quindi via, altro giro verso il centro abitato successivo, tra una precipitazione monsonica e l'altra.
pure l'aria è densa, compressa. è lo stesso in ogni posto: le giovani consorti dei clienti si pestano le borse per assenza di spazio, mentre i mariti o i fidanzati brindano amabilmente a dom pérignon, bevendone a canna, attenti a far schioccare bene i colli di bottiglia, rompendoli.
non cede e non cessa una certa resistenza al sonno, l'ipotesi che la serata prima o poi finisca: il fatto di stare sugli scudi per ore, di moderare il proprio passo già pericolante nella sobrietà, facendo il più possibile attenzione, puntando a non urtarsi, a non capitolare sotto le bordate dell'alcool.
ci sono posti irraggiungibili coi mezzi pubblici, posti troppo vicini per uno strappo in macchina, posti che non sai per quanto rimarranno aperti. una sera pensi che potresti andare lì e invece no, serranda abbassata, fine della corsa. ci si accorge che l'area un tempo adibita al posteggio, evento comunque raro e non privo di sorprese, è stata sgomberata a colpi di mine anticarro, fatta saltare per far posto al prossimo necessario centro di bricolage.
quello che si richiede, quando invece la ricerca è andata a buon fine, quando il posto esiste, almeno per quella sera, è stare il più possibile vicini, gridarsi perché magari la musica è alta e non si sente.
discutere animosamente per ore senza sapere di che.
le intenzioni sono, dapprima, di non dare nell'occhio: perché non va, perché comunque la prima consumazione è quella migliore, perché tanto non è che ci sia granché da mostrarsi. pare che non si possa dare un'impressione qualsiasi. se il bicchiere cade, oppure il tavolo traballa, allora apriti cielo, e il cielo si apre in cataratte, una pioggia regolare di liquidi multicolori, flutti di dubbia bevibilità.
un gorgo si forma all'apertura della gola.
a un certo punto qualcuno fa qualcosa, prende l'iniziativa, magari esce fuori a fumare riparandosi sotto la tettoia dilavata. intanto infuria il peggior rovescio temporalesco della storia, un rovescio fuori di quattro metri, una pioggia che rema da fondocampo, che aspetta un errore forzato.
si cade spesso nella trappola di pensare che gli stati d'animo siano interessanti, che anche gli stati interessanti lo siano, mentre invece il risultato finale è interessato e sono sempre le cause naturali a suggerircelo.
si rientra, e poi si parla, si continua a parlare per ore, mentre sotto la tettoia non ci si sentiva, si fumava e basta, si dava adito alla catena di fumo di far fuori le proprie vite, le proprie vie respiratorie. sereni.
e poi, di certe cose in particolare, e più nello specifico di argomenti poco chiari, doverne pensare qualcosa per forza, per il rischio di essere tacciati, sotto sotto, a bassa voce, quando si ritorna sotto la tettoia dilavata e il rovescio ancora non ha cessato il suo remare in direzione degli spigoli e degli angoli di strada, di non essere poi quelli con cui si credeva di, su cui si faceva affidamento per il futuro, per il proseguimento inerte di altre serate, per altro tempo come quello
forse tutto questo succede per completa inefficacia dei gesti, perché non siamo in grado di interpretare quello sguardo come tanti altri nostri coetanei sono in grado di fare, o forse perché, pure quelle volte in cui ci viene offerto qualcosa, anche in maniera involontaria, non riusciamo a capire la parsimonia degli altri, il fatto di non provare ancora l'euforia, la voglia che ogni cosa dovrebbe provocarci.
mentre fuori, sotto la tettoia dilavata, da cui cola acqua, prosegue una pioggia regolare, che c'è, si fa vedere, resiste al passaggio di nervi e di maree.
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