fare qualcosa, dire qualcosa, provare a passare dalle direttrici alle direttive non è sempre un bene, e se è bene non funziona, come la guerra e la fusione fredda. o meglio, funzionava, prima che la progettualità fosse imboscata come i motori tesla, a vantaggio dei propinamenti espressivi (e pro-pulsivi, cioè a vantaggio delle pulsioni). prima di farlo, però, diciamo qualcosa che non si verifica, né qui né altrove, ma che ci auguriamo per un futuro sereno (in segreto non ci auguriamo nessun futuro, neanche un futuro senza domani: manco per sbaglio. ma il futuro va di moda, la poesia indovinate, e allora ci si adegua).
che la dovremmo smettere, in sostanza, con questa scrittura di risentimenti, nel senso di un rimbalzo continuo e ciclotimico delle posture, con questa serpentina capillare da vasi comunicanti che rende il travaso di bile della scrittura meno travaso e più rimestamento. che sia un po' troppo poco mesto questo frugarsi addosso e dentro, questa rima al mezzo del sangue, degli score raggiunti automisurandosi il ph. certe cose non sono un segreto, non è minimale parlare del livello di pulizia dei propri pavimenti. l'intro-retro-spezione, spesso, è triste come una partita a monopoli che si protrae nei secoli. faccia riflettere questo: sono anni che nessuno passa dal parco della vittoria e che in libreria non si vedono più certe cose. una capatina in prigione potrebbero pure farcela, uno se lo augura, ma niente. a piede libero.
(supereroismo: se ho la faccia verde non è che mi sto trasformando, è che non sto tanto bene, amore salute lucente, smalto smaltato, vita vitale e chi più ne ha).
che la dovremmo smettere in corrispondenza alla sepoltura dell'ascia di una dismessa scrittura dei sentimenti dismessi pure quelli, di mani nei capelli che si diradano, di un turbamento pilifero che non si dà una regolata e si compiace delle viti svasate dal case del personal computer, in un maelstrom di cosificazione calciforme che interessa lo spettro del sensibile dagli organi genitali maschili e femminili ai cardini delle porte.
(bisognerebbe avere il coraggio di condannarli una volta per tutte, questo scambio d'organi e questo fluidificarsi della visione. fa pure una po' schifo, a dirla tutta, fuori dai denti e dentro i vasi. si può dare una poesia "dalla cintola in su". come la morte. senza scomodare natiche, tagli di luce che si infrangono sulle natiche, natiche e lenzuola, nati che non gli va proprio di morire e invece, poi prendersela un poco con la porno/pronocrazia e intanto non farsi mai mancare, penna alla mano, la propria buona percentuale di natiche, meglio se 1:1, a ogni natica sta una pagina. altrimenti che pensano, pensano che non ne vedo di natiche, meglio ancora 2:1, per scongiurare sospette deformità. un florilegio di natiche).
che la dovremmo smettere di condire tutto con una parata di oggetti, dato che ormai il suono è quello della rimpatriata di invalidi civili: oggetti di ritorno dal frontespizio, oggetti in sciopero e in pensione, che tirano il fiato, le cuoia, all'occasione i sanpietrini, gli estintori mentre il (famigerato) fuoco sacro dell'araldica brucia in disparte e nessuno se lo fila. una spolverata di paleolirica non guasta mai: tramonti, se ne avanzano. foglie di sicuro, e se ci stanno le foglie vuoi che non ci siano gli alberi? state a sentire: lo sapevate che prima di ispezionare natiche e riportare il tutto meticolosamente sono stato piccolo? nel senso, a un certo punto avrò avuto sei, sette anni. l'infanzia, la sospettavate l'infanzia? eccovela servita: fuori le natiche, dentro la nonna e i camioncini dei pompieri. non è una roba nuova, non è più poetica degli oggetti ma poetica dei ninnoli, delle carabattole da comò, ossia quando ancora il comò si chiamava comò e non aveva cessato di esistere, soppiantato dagli algebrici impiallacciati ikea. è sempre pacchiano, ma senza più l'umorismo da mondobig(i)otto. "questo verbo più logoro di noi" e non so voi (voi chi?, di nuovo), ma stando a noi ce ne vuole.
(c'è chi lo pensa e magari fra un po' ce lo viene a dire, e mannaggia ma come si fa, un lavoro di anni e anni sul declassamento della sensibilità (tà-tà-tà, come il rullo della pellicola o il rullo compressore sulle asperità della lirica, come la mitraglia ma a salve) e ora ci schizzi in faccia questo succo gastrico, questa salsa in bustina, questo poco, queste cafonate deliranti semiserie intollerabili schifo culo. anzi, schifo natiche. le generazioni, ci assicurano, entrano, ma qui la verità è che non se ne esce fuori.)
che la dovremmo smettere con le parole in secondo piano, quello di fuga, con le valigie pronte, condannate a riferire sempre la solita nenia, le solite camomille, le solite tisane all'occasione corrette perché se il maledettismo è sparito anche dalle quarte di copertina, dietro le quinte c'è ancora spazio. proprio un peccato non approfittarne. le parole che non sanno pronunciarsi su niente ma stanno lì solo in vece di, a mo' di citazione, e citano tutta una serie di cose che si svolgono dal comò in avanti. ma il comò non c'è più, come palla prigioniera, come le freak c'est chic, basta con questi oggetti in bretelle (anche quelle: non se ne è saputo più nulla), basta con la coperta corta del discorso comunque ascellare - a dispetto della brevità. non è che l'horridus non sappia scrivere, eh: è una parola piana, una parola media, una poesia da percorrere tutta in quarta. lo si fa per voi (voi chi?), una poesia piena di comfort, reclinabile, a scomparsa. l'horridus è capace di giurarlo: fosse per lui, dal cilindro caverebbe dei geroglifici da spavento, sa dirle le cose difficili se gli gira, fidatevi. ma è buono, è magnanimo, sempre sia lodato.
(bisognerebbe avere il coraggio di condannarli una volta per tutte, questo scambio d'organi e questo fluidificarsi della visione. fa pure una po' schifo, a dirla tutta, fuori dai denti e dentro i vasi. si può dare una poesia "dalla cintola in su". come la morte. senza scomodare natiche, tagli di luce che si infrangono sulle natiche, natiche e lenzuola, nati che non gli va proprio di morire e invece, poi prendersela un poco con la porno/pronocrazia e intanto non farsi mai mancare, penna alla mano, la propria buona percentuale di natiche, meglio se 1:1, a ogni natica sta una pagina. altrimenti che pensano, pensano che non ne vedo di natiche, meglio ancora 2:1, per scongiurare sospette deformità. un florilegio di natiche).
che la dovremmo smettere di condire tutto con una parata di oggetti, dato che ormai il suono è quello della rimpatriata di invalidi civili: oggetti di ritorno dal frontespizio, oggetti in sciopero e in pensione, che tirano il fiato, le cuoia, all'occasione i sanpietrini, gli estintori mentre il (famigerato) fuoco sacro dell'araldica brucia in disparte e nessuno se lo fila. una spolverata di paleolirica non guasta mai: tramonti, se ne avanzano. foglie di sicuro, e se ci stanno le foglie vuoi che non ci siano gli alberi? state a sentire: lo sapevate che prima di ispezionare natiche e riportare il tutto meticolosamente sono stato piccolo? nel senso, a un certo punto avrò avuto sei, sette anni. l'infanzia, la sospettavate l'infanzia? eccovela servita: fuori le natiche, dentro la nonna e i camioncini dei pompieri. non è una roba nuova, non è più poetica degli oggetti ma poetica dei ninnoli, delle carabattole da comò, ossia quando ancora il comò si chiamava comò e non aveva cessato di esistere, soppiantato dagli algebrici impiallacciati ikea. è sempre pacchiano, ma senza più l'umorismo da mondobig(i)otto. "questo verbo più logoro di noi" e non so voi (voi chi?, di nuovo), ma stando a noi ce ne vuole.
(c'è chi lo pensa e magari fra un po' ce lo viene a dire, e mannaggia ma come si fa, un lavoro di anni e anni sul declassamento della sensibilità (tà-tà-tà, come il rullo della pellicola o il rullo compressore sulle asperità della lirica, come la mitraglia ma a salve) e ora ci schizzi in faccia questo succo gastrico, questa salsa in bustina, questo poco, queste cafonate deliranti semiserie intollerabili schifo culo. anzi, schifo natiche. le generazioni, ci assicurano, entrano, ma qui la verità è che non se ne esce fuori.)
che la dovremmo smettere con le parole in secondo piano, quello di fuga, con le valigie pronte, condannate a riferire sempre la solita nenia, le solite camomille, le solite tisane all'occasione corrette perché se il maledettismo è sparito anche dalle quarte di copertina, dietro le quinte c'è ancora spazio. proprio un peccato non approfittarne. le parole che non sanno pronunciarsi su niente ma stanno lì solo in vece di, a mo' di citazione, e citano tutta una serie di cose che si svolgono dal comò in avanti. ma il comò non c'è più, come palla prigioniera, come le freak c'est chic, basta con questi oggetti in bretelle (anche quelle: non se ne è saputo più nulla), basta con la coperta corta del discorso comunque ascellare - a dispetto della brevità. non è che l'horridus non sappia scrivere, eh: è una parola piana, una parola media, una poesia da percorrere tutta in quarta. lo si fa per voi (voi chi?), una poesia piena di comfort, reclinabile, a scomparsa. l'horridus è capace di giurarlo: fosse per lui, dal cilindro caverebbe dei geroglifici da spavento, sa dirle le cose difficili se gli gira, fidatevi. ma è buono, è magnanimo, sempre sia lodato.
Daniele Bellomi, Manuel Micaletto
Smettetela di dire i capelli che si diradano. c'è un limite per la scrittura. non si può parlare così di bershka o dei capelli che si diradano. che scempio.
RispondiEliminavi siete dimenticati di tutti gli origami che si fanno con la parola "origine", ma vi perdono.
RispondiEliminagran pezzo,
f.t.
spiace per i capelli che si diradano, ho visto che non solo qui si riprovano (sono stati riprovati). pazienza, anche quando si parla di realtà che hanno un peso (che pesano) persino per noi non si arriva al "cuore della gente".
RispondiEliminanon crediamo di poter fare molta simpatia, io e quell'altro lì. più che altro, i capelli che si diradano li possiede solo uno dei due. siamo entrambi un po' arrugginiti, o meglio, da decalcificare, come caldaie senza manutentori o lavatrici senza anticalcare, giusto per mietere qualche similitudine. nel frattempo proviamo a farvi cadere tutti i soprammobili. tutti, nessuno escluso, nella speranza che qualcuno colga (non i soprammobili, comunque). anche tre, quattro persone vanno bene. siamo fiduciosi.
grazie, intanto
d.b.
Un horridus in mezzo a voi. Che ci sto a fare qui? numero?
RispondiEliminaL'infiltrato ma non come le spie, come le macchie d'umido. Scatta la perquisizione.
RispondiEliminaNicce blog thanks for posting
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