martedì 11 agosto 2015


branches, weapons, wings, hands (2015)


passare e chiudere scordandosi gli acronimi, nel “domani che viene”:
per quanto fatto, e più a lungo, a radicarsi nelle parallele o nei riverberi.
è quanto importa solo nel disegno e nel periodo che si blocca, rimanda
altrove a più mandate anche dell’altro a fare voci, e non è vigile a se
stesso, e non capita mai più. resta una definizione, e proprio lì continua
a dirti “che non è difficile”, delle pareti chiuse e compiute, a consolare
ciò che è equivalente, o meglio, continua a dirti che “è l’equivalente”,
e “se non è così difficile” decide che vedere il “dove” e “il niente” è
più del niente e importa ovunque, ed è la stessa vigilanza, e i luoghi
attesi potranno separare il massimo dal peggio, e intanto non accade
nessun posto, niente stati di veglia, niente vedere quanto è divenuto
altro dal centro, e dal basso: lo sguardo è finalmente arreso, puntato
ad alzo zero, in proiezione cieca. dirigere la procedura adesso implica
la coltre e la corsa, la progressione degli alberi, disciplinata fuori, posta
a quell’abisso del minuto dopo: è la resa del giorno, la facoltà di non
doverne più rispondere, e accade niente nelle impronte, nel giorno
dopo quello dell’abiura, niente misure necessarie, e sì, “dell’altro è fine";
estremità da stare in piedi, venute appena a conoscenza del mondo.

giovedì 2 aprile 2015


listening to a killer's mind, 3


sa, e ripara i pannelli di luce: la corona, il sangue. dalla linea bianca
del costato vuota il figlio, lo vomita a ritroso, diserta il segnale, l’input
concordato che può solo andarsene al macello e lo riceve altrove:
è che si è nascosto per connettersi. al cambio di marea ne espianta
i led: pensa al fatto che è di luce, il nessuno. una virgola soltanto
lo rimanda al benchmark andato una volta sola più in alto, integra
il cerchio all’ultimo aggettivo. il rapporto master/slave congela
l’interfaccia al suo ritorno umano, il blue screen of death una volta
tanto divenuto vero, tornato ad investire capitale, a fare casting,
nel lancio di incantesimi a ciclo continuato. uno si sacrifica, l'altro
finisce ugualmente per morire, lascia il prossimo come se stesse
dentro un carcere o nel centro dati, e non ne sa spiegare il come,
al prossimo suo come se stesso. dal retro dei monitor riesce a fare
una magia, a domare la terra, il codice, le stringhe: allaccia a caso
la sua idea di domazione, cioè non di dominare, ma di fare domus,
o casa, al meglio. la stagione non cambia, è tempo appena spaziato,
a ricordargli che la lettera di chi gli ha dato luce, e violenza, brucia
a fuoco alto, in camere di esempio e di cattura. il soggetto cessa
la sua marcia, vira nelle fiamme mano a mano, nel campo intuisce
la battaglia, si prende sul serio, corre e tira, segna, fa scala reale.

sabato 14 febbraio 2015


daniele bellomi - monotremata (2015)


è lì che tiene il conto per davvero: da dominio, a regno, 
a ramo, nell’insight diffuso, per tutto quanto accade e resta 
irreparabile. prepara una discolpa, un grafico a cascata. 
lí, nel cranio, e dopo, nei molari, a non procedere nell’oltre 
dei circuiti: ricorda l’altra stanza, che era lunga, diffusa 
e se ne andava altrove da una luce ora conforme, non lì 
per dileguare nell’intorno di caduta. il modo è non sapere 
niente, una forma familiare conseguita, pronta a muovere 
da parte organica, formata a rovinarne fuori dalle viscere: 
è quanto è stato, e altro, e quanto sa di essere crollato, 
fatto per te, deposto accanto a tutti, da vedere, in sacrificio 
per voi. potendo infine brillare, come superficie, o farsi, 
e farsi largo in esplosioni di controllo, dall’alto, masticarne 
la ferocia: tremano, dalle aperture del museo dove la lingua 
trova contro palati, e ne dovrà spinare, gonfi come dighe
nel veleno che li trova irrigidirsi, schedati: documentario
di una terraferma approssimata in data morte, e che sia 
esatta, e data, quotidiana: alcuni via nei morsi, altri ancora
a riposare sulla mano, e ancora è niente fuga, per niente:
è tutto quanto, nei secoli dei secoli, sarà lasciato dopo.