sa, e ripara i pannelli di luce: la corona, il sangue.
dalla linea bianca
del costato vuota il figlio, lo vomita a ritroso, diserta
il segnale, l’input
concordato che può solo andarsene al macello e lo riceve
altrove:
è che si è nascosto per connettersi. al cambio di marea ne
espianta
i led: pensa al fatto che è di luce, il nessuno. una
virgola soltanto
lo rimanda al benchmark andato una volta sola più in
alto, integra
il cerchio all’ultimo aggettivo. il rapporto master/slave congela
l’interfaccia al suo ritorno umano, il blue screen of death una volta
tanto divenuto vero, tornato ad investire capitale, a
fare casting,
nel lancio di incantesimi a ciclo continuato. uno si
sacrifica, l'altro
finisce ugualmente per morire, lascia il prossimo come se
stesse
dentro un carcere o nel centro dati, e non ne sa spiegare
il come,
al prossimo suo come se stesso. dal retro dei monitor
riesce a fare
una magia, a domare la terra, il codice, le stringhe:
allaccia a caso
la sua idea di domazione,
cioè non di dominare, ma di fare domus,
o casa, al meglio. la stagione non cambia, è tempo appena
spaziato,
a ricordargli che la lettera di chi gli ha dato luce, e
violenza, brucia
a fuoco alto, in camere di esempio e di cattura. il
soggetto cessa
la sua marcia, vira nelle fiamme mano a mano, nel campo
intuisce
la battaglia, si prende sul serio, corre e tira, segna, fa
scala reale.
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