provo a esercitarmi qui nel campo dei tuoi sensi
figurati e mai rivisti
e poi rivolti in fasce in transiti celesti sbagli e
azioni che rimangono
nel volto che si sdoppia se indossato al suo contrario
nel rovescio
che richiama l’attenzione e chiede di non essere
girato per se stesso
nelle svolte che saranno occhi denudati e resi sterili
inadatti a farsi
largo nelle cornee liberate dal possesso mentre chiedono
se possono
passare a stringere il tuo braccio baricentro in tutto
ciò che ti ripara
alzando in volo un corpo morto appena messo a nuovo e rinnovato
invece di tentarlo a non commettere se stesso nella
nascita affidarlo
ai propri sfoghi per pulsioni e punti di contatto
rimasti e immaginati
osservazione che distingue e che non passa in mezzo a
mondi scritti
in modi sospesi e sovrapposti dall’interno delle
postazioni nella veglia
sfatta delle cronache di guerra nei collassi messi a
freno se è buona
la buona maniera di allontanare ciò che è stato esorcizzato
in nome
dei passaggi chiari inserti ricomparsi usando termini
del proprio stato
vuoto nell’interno ossia macerie quanto prima rilevate
e messe all’asta
a gravitare intorno al dramma mentre esprimono quest’indole
di farsi
mute e sorde e di guarire dalla propria voglia arcaica
di disperdersi
penso che esercitarsi voglia dire far sì che niente
possa allontanarsi
che niente possa espellersi da vivo in esistenze
rivoltate verso l’alto
dentro il netto dove è pulito il frutto della vista che
si apre nei rilievi
tesi verso il basso e fa capire e ritrovarsi al punto
che sarà un arrivo
e che distingue l’ora della prossima chiamata la
chiusura di una porta
aperta un po’ più avanti e che consente di tirare lo
sporco all’interno
dall’esterno che si strappa e scivola nel panno che
pulisce per quanto
ne esca fuori dopotutto e non rimanga poi nascosto o
inaccessibile
se esercitarsi ora vuol dire passare più volte per una
cruna disarmata
se ci si converte nel senso di convergere al punto e al
passo segnato
di un dolore del mondo che non esiste in un dolore che
però rimane
di ciascuno se si ascolta con l’orecchio alla fessura
non di questa vita
ma
di tanta riflessione dentro ai denti una banchina a tempo morto
un
cavo a uscire dalla bocca che non ha significato se non si tende
o
tiene la presa prova ad essere diretto come dentro al fotogramma
successivo
dall’inoltre a un ultimo segnale autoritratto e poi rivisto
non
vivibile o visibile agli schianti precedenti cuciture come l’andare
indietro
al punto centrale dell’immagine passando per il luogo esatto
di
un evento almeno nel secondo di una nuova e prossima presenza