sabato 30 giugno 2012


cruna (2012)


provo a esercitarmi qui nel campo dei tuoi sensi figurati e mai rivisti
e poi rivolti in fasce in transiti celesti sbagli e azioni che rimangono
nel volto che si sdoppia se indossato al suo contrario nel rovescio
che richiama l’attenzione e chiede di non essere girato per se stesso
nelle svolte che saranno occhi denudati e resi sterili inadatti a farsi
largo nelle cornee liberate dal possesso mentre chiedono se possono
passare a stringere il tuo braccio baricentro in tutto ciò che ti ripara
alzando in volo un corpo morto appena messo a nuovo e rinnovato
invece di tentarlo a non commettere se stesso nella nascita affidarlo
ai propri sfoghi per pulsioni e punti di contatto rimasti e immaginati
osservazione che distingue e che non passa in mezzo a mondi scritti
in modi sospesi e sovrapposti dall’interno delle postazioni nella veglia
sfatta delle cronache di guerra nei collassi messi a freno se è buona
la buona maniera di allontanare ciò che è stato esorcizzato in nome
dei passaggi chiari inserti ricomparsi usando termini del proprio stato
vuoto nell’interno ossia macerie quanto prima rilevate e messe all’asta  
a gravitare intorno al dramma mentre esprimono quest’indole di farsi
mute e sorde e di guarire dalla propria voglia arcaica di disperdersi
penso che esercitarsi voglia dire far sì che niente possa allontanarsi
che niente possa espellersi da vivo in esistenze rivoltate verso l’alto
dentro il netto dove è pulito il frutto della vista che si apre nei rilievi
tesi verso il basso e fa capire e ritrovarsi al punto che sarà un arrivo
e che distingue l’ora della prossima chiamata la chiusura di una porta
aperta un po’ più avanti e che consente di tirare lo sporco all’interno
dall’esterno che si strappa e scivola nel panno che pulisce per quanto
ne esca fuori dopotutto e non rimanga poi nascosto o inaccessibile
se esercitarsi ora vuol dire passare più volte per una cruna disarmata
se ci si converte nel senso di convergere al punto e al passo segnato
di un dolore del mondo che non esiste in un dolore che però rimane
di ciascuno se si ascolta con l’orecchio alla fessura non di questa vita
ma di tanta riflessione dentro ai denti una banchina a tempo morto
un cavo a uscire dalla bocca che non ha significato se non si tende
o tiene la presa prova ad essere diretto come dentro al fotogramma
successivo dall’inoltre a un ultimo segnale autoritratto e poi rivisto
non vivibile o visibile agli schianti precedenti cuciture come l’andare
indietro al punto centrale dell’immagine passando per il luogo esatto
di un evento almeno nel secondo di una nuova e prossima presenza

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