giovedì 23 giugno 2011


al centro, come distesa (i)

Come la calza che si smaglia, soppesi e fingi che tutto
si risani – la calce tirava la pelle fino al limite – e quasi
stai per salpare, anche se ora sali sul plesso dei nostri mille
muscoli ritesi, con la tua lacca per capelli che ne limerà
il palmo mentre risali ad Algeri – non sono stato sotto
nessuno e non ho mai giurato ma ti sento ancora simile
a qualcosa che irradia, come se mi avessero stretto attorno
delle bende – se tutti sapessero di questo binario morto,
della figura di un argine in cui siamo naufragati – copiare
questo per iscritto sotto ipnosi non è scambio sinaptico
annunciato, ma incrocio di uno starci, di un resistere
precoce alla prosternazione – non è ancora tempo del trillo
a cui piegarsi, ma si corre a strisce, a scapito delle mani –
rimani tu per ora, rasserenante sboccio di borgata, unisci
e mi consoli come quando calerà scorrendo il gas dai tubi
e nei bienni a venire ti anniderai corsara in burqa correndo
nel mio cranio per tutto un tempo rischioso, indecifrabile.

*

Se la caveranno, dice Zenone al caffè col suo paradossale
ridere che fa sgarro ai paradisi sullo sfondo, alle svendite
più a sud (mentre l'idea di qualcosa che si donasse, per
una volta sola, inciampa, riempie gli angoli noi increduli,
sconvolti). Non siamo noi, gli dico, quelli a cui sparano
gli eburnei spettri della nostra vocazione, ma soltanto
l'odore che scala dalle serrande abbassate, muovendo
la mano sul cambio in due, via da quella foga di orme
che ancora una volta ci berremo, alla salute.

*

Ed è così
che mio giovane emblema le donne cambiano e pregano
incerte, capitane incinte con il tirso di questa tua livida
immaginazione che le perscruta attenta fino alla trincea
denegata, alla cernita composta di un rifiuto indolore
che non rimanga oltre il bicchiere. Così, per generare
il generabile appaieremo, calmandoci, i discorsi di noi
due, rompendoli come le uova, e dei cocci più datati ne
faremo storie, dandoci un attimo il via per ridere quando
ascolteranno e non vedranno dove siamo disuguali, le
due vittime concordate. Allentare dunque i talloni e così
le ancore, falene che hanno la donna che conosciamo
salutare con la faccia dell'evaso i due opposti coincidenti
che guardandosi hanno il viso di uno solo, con coesione
di turbine e del ritmo che ruota spingendo via le cose,
sopra al mare.

*

Cadendo spara il solleone sulla testa coi
suoi narvali a percussione che si vedono saltare in fianco
alle carene – ed è questa l'origine del denaro, ti dico io,
la dea che sverna perpetua nel cavo della notte, cursore
che adori come ninfa modellata a un benessere redento –
mentre seguiamo il rollio di te che te ne vai serrata
nelle mani la lima per le unghie, rinviata per svellere
e brillare nelle mani di altri, e tu anche, inviata lontano
più degli orli della gonna da cui scrolli uno sguardo
di sbirro inconsapevole che recita il suo salmo, e mentre
apri le manette io ti assolvo settanta volte dal pulpito,
sette da questo bar, con le mie pupille con cui ti ho
seguito dalla prima volta fino al varo della nave,
sul polso tatuato dei marinai, anche per via di un canto
delle oscillazioni, precedenti ad anse, scansando le onde
e le scialuppe.

*

Come se uno ieri ti fosse venuto dinanzi,
muovendoti il viso con la mano che suona e si adegua
alla tua pena, mentre l'angelo oramai annega, e allora
ce ne facemmo una ragione, mordendoci coi denti
che snidavano il filo di lana, irrimediabile annullarsi.
Rimane l'impressione di te partendo, quando magari
urterai in futuro la tua vita di ladra rintanata negli
anfratti di ogni costa, vicina alla rete dalle maglie
più usurate, tenuta da mani che ne strillano il dolore,
incompleto come uno strappo che ti riporta indietro.

*

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