sabato 11 giugno 2011


neppure questa è l'acqua

magari non tutta, magari solo un bicchiere, che sembra una miseria ma vi sbagliate, un bicchiere è, de facto, un ingrandimento dell’acqua, l’acqua messa a fuoco, un primo piano, un particolare, un’acqua al dettaglio e nel dettaglio.

oggi ad esempio c’era un rubinetto, e non bastava girare, serviva tirare, spingere verso l’alto. l’acqua si creava cioè senza i giri, senza accartocciarsi, ma con uno slancio cervicale, si inarcava, si levava come se non potesse esserci acqua senza un soffitto a custodirla, come se il soffitto fosse per l’acqua un garante, come dio per l’etica, o per meglio dire un nume tutelare. le macchie d’umido.

in tutta onestà, io non so se ciò che ho visto, oggi, immediatamente dopo lo stacco e i giri, è l’acqua, davvero l’acqua, o se invece è un bacino, la stanza premuta in una conca, una lordosi del piatto oftalmico, un accerchiamento olografico, una saturazione di ciascuna cosa ma come dall’interno, un embolo o ancora il sonno, che è una bolla e non si smentisce.

sta di fatto che: l’acqua non si può vedere, ma solo avvistare (e avvitare, nel più fortunato
dei casi: pensiamo proprio ai rubinetti) e a maggior ragione oggi, che ciascuna america è stata scoperta e nessuno grida più “terra”.

questa non è solo l’acqua di oggi, ma un primo modo di estrarre l’acqua, che diremo “parabolico” e che sprigiona quasi un’acqua-vapore, che si sviluppa in altezza, un’acqua- boa (sia serpente sia galleggiante) e conclusa in se stessa, perfino autoreferenziale, autarchica, indipendente, un’isola; un’acqua-uovo ermetica, a tenuta stagna, liscia e impermeabile, capace di almanaccare il mondo tubo per tubo, uno stato sovrano, un potere centrale e un taglio dei ponti, la ragione intima di ogni embargo, un’acqua gerarchizzante e giurista e giurata, come un nemico o una promessa, infine costitutiva

e, quel che più importa, integra.

coi lavabi e le manopole, comunque, non abbiamo ancora chiuso. (all’acqua vera e propria, invece, arriveremo solo in un secondo momento). abbiamo trattato l’acqua verticale, l’acqua analoga alle travi, etc. va detto che a volte succede il contrario, succede che uno debba spingere verso il basso, esercitare pressione (un po’ come accade per il gas), esercitarsi fino all’acqua.
primo avvertimento: per l’acqua occorre allen(t)amento, non si può arrivare all’acqua impreparati, poiché l’acqua è liquida ma inflessibile e ci ripudia. non c’è un secondo avvertimento.

questo è un secondo modo dell’acqua, ed è una sorta di pantano, è una condotta più goffa, impacciata, pesante e in qualche modo enfatica; è un’acqua che esaspera la sua uniformità, la tende e la dilata finché non diviene lentezza.

(un capitolo a parte, invece, meriterebbero i materassi ad acqua, che usano cioè l'acqua come carburante per innescare il sonno, e a dire il vero non si capisce dove finisce l'acqua e dove comincia il sonno, sicché il rischio è quello di dormire l'acqua, e non riesco proprio a figurarmi, a quel punto, cosa potrebbe succedere. forse il mare. di dirac).

dicevamo che non è possibile comprendere l’acqua, che l’acqua è insolubile, e non parlavamo a sproposito: nessuna abduzione, ma piuttosto abluzione; bisogna essere sommozzatori, non logici. mi vengono in mente, anche, le acque gemelle di putnam. una “semantica dei mondi possibili” fradicia – ma forse queste acque sono fin troppo estrinseche, forse qui c’entra davvero il riferimento sganciato dalla comprensione – era per non citare proprio talete.

veniamo all’anatomia dell’acqua. l’acqua è quella pellicola, quel diaframma che si frappone tra noi e il mondo e che non è il freddo, o almeno non del tutto. questa si può dire, a ragione, una buona approssimazione dell’acqua.

(la differenza principale che sussiste tra acqua e freddo, e che ci permette di distinguerli con discreta precisione, sta nell’evidenza che l’acqua può essere “aperta”, “chiusa”, “messa”, “controllata”, “buttata”, “tirata” – a me è capitato addirittura di “stringerla”, magari al petto – mentre niente di tutto questo può essere fatto al freddo. abbiamo dunque sull’acqua un margine di intervento, di partecipazione che col freddo ci è invece precluso).

vogliamo essere più scrupolosi. vogliamo andare a fondo, vogliamo affondare. chi tra di voi si è mai imbattuto nell’acqua allo stato “selvatico”, se così si può dire; chi ha sbirciato l’acqua anche una sola volta, anche di sfuggita, sa che ai lati è squamata, che normalmente ha la forma di una spirale e quando e dove finisce si nota distintamente una coda.

se invece l’acqua è bloccata, allora si compatta, si infittisce, sigilla le scaglie, si contrae, come in preda a un crampo, si carica a molla e sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro.
a lasciarci sbigottiti non è mai il contenitore ma il contenimento, questo accumulo impensabile di (es)tensione che si eterna, oserei dire si tramanda, e non si scompone davanti a nulla, neppure ai nostri pigiami a righe, ai nostri spazzolini sciupati, ai tubetti colgate, e viene da pensare quasi a una dignità dell’acqua, a un portamento, un contegno. (l’acqua, almeno quella nelle bottiglie, ha un’etichetta vera e propria, fateci caso).

non è in discussione.

se è vero che noi possiamo passare sopra all’acqua, possiamo attraversarla o sorvolarla, occuparcene o ignorarla, è altrettanto certo che l’acqua non passerà sopra a noi, non farà finta di non vedere, e se non laverà (che è altra cosa da “levare”, è più “tirare a lucido”) le nostre colpe, non è detto che voglia graziare anche i nostri capelli.

barare ma fuori dai giochi, muero porque no muero, quello che l’universo sarebbe stato senza il cedimento della creazione. la cosa peggiore, infatti, è quando le acque si rompono, improvvisamente plurali, divise, faziose, quando si scuce la falla e cede l’ordine, il criterio dell’acqua, ed è allora che accadono le cose più terribili.

più precisamente, il bastione, l’avamposto da cui irradia i suoi tentacoli. non ci tocca, neppure ci sfiora: diversamente, ci sovrasta.

non so se credete ai mostri marini, o almeno al calcare, ma sappiate che i tubi servono proprio a questo scopo, a proseguire la morte come un discorso. a permetterne anche un deflusso, una scappatoia.

controindicazioni: se noi chiamiamo l’acqua, ecco che quella arriva, ma in cambio pretende qualcosa, e non si tratta di una contropartita alchemica, equilibrata, si tratta ormai di un ricatto (non tratta, è un tratto caratteristico, niente trattative) poiché l’acqua è assetata di conquista, è imperialista, tende a occupare tutto lo spazio e nessuno può assicurarci che un giorno non reclamerà proprio il nostro.

niente abissi, però. l’acqua è proprio una forza opposta agli abissi, una tensione del tutto superficiale, l’acqua è anzi sfacciata, è tutta in superficie, sta in alto, più in alto della terra.

abbiamo preso le nostre contromisure, abbiamo argini, grondaie, canali di scolo, questi tentativi laterali di formare fermare l’acqua, di educarla, disciplinarla, di iscriverla nel piano cartesiano, di cavarne una geografia leggibile. non sto dicendo la forza della natura, gli uragani e pompei.
sto dicendo, piuttosto: distrazione, non distruzione. l’acqua sostanzialmente passa, e così noi. non si ferma e non si sofferma, non indaga e non studia. non si muove dal letto e non va neppure agli esami. sempre come noi.

non pensiamo, in questo modo, di aver sciolto o sezionato o illustrato l’acqua (ma giusto un abbozzo, uno schizzo), perché l’acqua è inestricabile. non pensiamo di averla esaurita. ma un sommario, un indice.
perché si potrebbe pensare altrimenti, si potrebbe pensare che io sia un acque-dotto.



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